L’amore in pochi passi. Sabato vado al mercato all’Isola. (da leggere ascoltando Nantes di Beirut)

Madonna ‘sto passante. Quando ti capita il treno vecchio, ci puoi morire dentro. Tutto polveroso e caldo, appiccicoso e sudato. Sì, è un treno sudato, suda proprio lui, il treno intendo. Non si tratta degli effetti del caldo sull’umanità viaggiante.

Non in questo caso.

In genere, è così. Tipo in metropolitana, tipo la linea verde è da impazzire, tipo che sali e già vieni respinta da un muro caldo e pesante di ascelle poco inclini al dialogo. E l’apnea non è tra i miei talenti. Non ancora, mi sto attrezzando, sto cercando di crearmi tutta una serie di super poteri che mi permettano di passarmela meglio.

Ce ne sono alcuni che davvero mi tornerebbero molto utili: la super velocità quando sono in ritardo, la super forza quando devo aprire un barattolo, la super pazienza sempre, la super battuta brillante quando la sera sono stanca, le super tette che spuntano a gentile richiesta, il super potere dell’essere fashion e non solo ben vestite, brillanti e non genericamente simpatiche, luccicanti e non solo luminose, come una discoteca degli anni 70 a NY, come lo Studio 54, come David Bowie.

Porta Garibaldi. Arrivata. Scendo dal treno e mi guardo indietro per accertarmi che nulla mi sia, accidentalmente, caduto dalla borsa, continuando il suo viaggio mentre il mio termina qui.

La mia borsa scoppia.

Ogni sabato mattina me ne vengo qui. Non è il mio quartiere ma è come se lo fosse. Ci vengo da sola. C’è il mercato e c’è tanta gente. Esco dal sottopassaggio e mi godo lentamente la strada. Estate e inverno.

Passo davanti alla scuola materna e, se arrivo all’orario giusto, mi faccio strada sul marciapiede tra i nonni che aspettano i nipoti.

Tutti hanno in mano un cartoccetto unto di qualcosa, dal profumo grasso sembrano patatine fritte prese direttamente dalla rosticceria ambulante del mercato.

Nonni che fanno i galanti con altre nonne, e non si tratta delle loro legittime nonne.

Tutti felici, ordinati e in attesa.

Il suono della campanella viene inghiottito dalle urla dei bambini: Yuppie! È sempre uguale questo, in qualunque epoca e a qualunque latitudine accada.

La scuola è finita: YUPPIE!

Dopo pochi passi, mi si spalanca davanti, urlando di gioia, il mercato dell’Isola. Il mercato del sabato. Si annuncia con una galleria di bancarelle che occupano i lati della strada che spacca la piazza alberata: frutta, verdura, pane, dolci e articoli per la casa. Tutto insieme e ben esposto, quello che può servire a renderci felici. Tu ci cammini in mezzo a quella galleria, richiamato dagli inviti degli ambulanti che cercano di attirare la tua attenzione su quello che hanno da offrirti. Una scenografia ben costruita: le bancarelle si schiudono al tuo passaggio, ragazzi in bicicletta con le borse appese al manubrio da cui sfuggono braccia erbose di ortaggi, nonnine con il carrello, loro naturale protesi, le nonne con le rotelline, le nonne i carrelli colmi, da brave nonne a riempire senza respiro le dispense per i nipoti in cerca di cibo. Ci sono alcune cose che le nonne acquistano con particolare accanimento: il latte a lunga conservazione, le scatolette di tonno e i biscotti secchi. Questi prodotti sono la maggioranza chiassosa delle loro dispense, roba che quando si fanno le assemblee di condominio delle dispense quelle si alleano e con il loro voto riescono ad imporsi e a conquistare gli scaffali con la vista più bella. Una mia zia, esaurito lo spazio nella dispensa, era partita all’attacco e alla conquista dell’armadio, la parte dello zio beninteso, e quindi, tra camicie e pantaloni in inferiorità numerica e cromatica, si facevano strada pacchi di pasta e di merendine. Quelle merendine spugnose per cui, da bambina,  avrei commesso brutti crimini.

Il sabato mattina esiste un rituale preciso.

Isola è un paese con le sue abitudini e con le persone che si conoscono tra di loro. Sempre le stesse. Sempre con lo stesso giro che va dalla colazione e giornale in un bar, salto al mercato, aperitivo alla trattoria di Luca, dove se abbiamo bevuto un bel po’ a stomaco vuoto ci fermiamo anche per il pranzo.

Scanso la gente che mi viene incontro.

Ragazzi e ragazze. Tutti ben vestiti, come direbbe la mia nonna.

“Bella signorina, vuol sentire i pomodori. Sono dolci. Sono uno zucchero”. Un fruttivendolo attira la mia attenzione. Credo abbia una cinquantina d’anni ma è un dettaglio di poco conto, non voglio fare indagini anagrafiche su quest’ uomo gentile. Mi sorride e mi porge un piccolo pomodoro datterino. Lo sfrega tra le dita per pulirlo dalla polvere e io tendo la mia mano verso la sua e accetto il dono. Lo annuso e istintivamente lo pulisco, anche io un poco, girandolo tra le mie dita. È duro e rosso. E profuma di terra.

“Stia tranquilla, signorina, tutto biologico qui, niente veleni e poche ore fa dormiva ancora sulla sua pianta”. Mi fa l’occhiolino il fruttarolo, paterno, e mi piacerebbe mi invitasse a pranzo.

Lo immagino con la sua bella famiglia, a tavola, dopo il lavoro. Con sua moglie, soffice, rossa e accaldata che mette in tavola gli spaghetti con il pomodoro. E i bambini, un ragazzino di dodici anni circa e la sua sorellina più piccola, che semplicemente aspettano di mangiare.

E il sugo è stato preparato con quei pomodori che, stamattina, erano ancora sulla pianta. E tanto basilico. E poi mi porge il grana che si tuffa, nella giusta dose, dalla formaggiera sul mio piatto e, con un arco elegante come una ballerina di nuoto sincronizzato, si stende sulla montagna di sugo e spaghetti E io sapete cosa faccio? Mi ci tuffo con tutta la faccia e comincio a risucchiare senza vergogna la mia pasta come se, dall’altro capo del filo, ci fosse un tesoro. Il mio tesoro.

In tutto questo, ho addentato il pomodoro che, viste le mie fantasie ad occhi aperti, credo sia leggermente lisergico.

Ringrazio e, per gratitudine, decido di investire dieci euro in pomodori, peperoni, basilico, prugne gialle e un grappolo d’uva bianca.

“E uno glielo regalo io, signorina bella” Mi fa il fruttarolo, mettendo un altro grappolo d’uva nel sacchetto di carta marrone. “Mi faccia sapere poi come è, la prossima settimana”.

Sicuro di avere ormai conquistato il mio cuore, la mia pancia e il mio borsellino magro magro.

Afferro il sacchetto e me lo sistemo all’altezza del gomito del braccio sinistro, come Audrey farebbe con la sua borsetta Louis Vuitton.

Ho bisogno di detersivo per i piatti. Io devo lavare i piatti. Una delle cose che mi rilassa di più al mondo.

Quanto mi piacciono queste drogherie all’aria aperta, penso mentre mi dirigo verso la bancarella con i detersivi. Se fosse consentito, mi metterei a svitare tutti i tappi dei flaconi e ad annusare qualunque cosa, con una particolare predilezione per gli ammorbidenti. Mi piacciono i profumi maschi, decisi, senza tentennamenti o ripensamenti. Mi piace il bergamotto e non il mughetto. Se ci fosse un ammorbidente al profumo di chiave inglese, sarebbe mio.

Una ragazza che legge il giornale urta la mia spalla e mi guarda al di là dei suoi occhiali da sole. Sorride chiedendomi scusa. Cosa legge? Un fumetto. La copertina sembra una caramella. Posso dare una leccatina?

Fermi! Pollo arrosto.

La mia coscienza mi urla qualcosa: “senti, è una settimana che la sera, stanca morta, senza vita, senza dignità, ti trascini fino a quei due alberelli calvi che chiamano parco e arranchi, fai finta di correre, trascini e ti trascini sull’asfalto sconnesso che ad ogni passo ti rimbomba nella schiena mentre gli altri, quelli magri, quelli in forma ti doppiano, ti superano più volte, con i loro ipod, anche loro più veloci e più in forma di te. Per motivarti hai scaricato tutte le colonne sonore dei film di Silvester Stallone e poi ti sei appuntata sulla giacca la spalletta di Rocky sulla scalinata di Philadelfia, ma proprio non c’è verso. Più che correre, cammini, senza grazia strusci i piedi per terra. Pesanti come il tuo culo”!

Però oggi è sabato, oggi è il sabato all’Isola. Oggi voglio le alette di pollo e le crocchette fritte. Voglio bere la birra da Luca. Voglio stare un po’ così, senza regole.

Respiro, respiro, respiro.

E poi oggi voglio anche comprare il pane e le trecce salate con le mandorle, che sono dei tarallini intrecciati, per intenderci. Due etti di prosciutto crudo, le olive e una bottiglia di Bonarda. Mi piacciono i vini rossi frizzanti, embè? Sarò poco raffinata ma mi ricordano il vino con l’aranciata che, di nascosto, il nonno mi faceva un po’ bere la domenica a pranzo.

Speriamo che non piova. Il cielo è scuro lì giù, oltre le gru.

Sono arrivata a Milano troppo tardi, per conoscere Isola senza le gru.

E non sono loro il problema ma tutti ‘ste enormi pareti di acciaio e buchi in guisa di finestre, prese d’aria obbligate, altissime mura di palazzi che, come la fiaba del fagiolo magico, esplodono verso il cielo.

E, oggi, mi sembra che arrivino a toccare l’ammasso duro e freddo di nuvole nerissime che forse dentro digeriscono pioggia e tempesta. Pronte a sputarle fuori.

Io, come sempre, ho sbagliato a vestirmi. L’ultima volta che ho preso la pioggia, le mie ballerine di cartone si sono letteralmente sciolte.

C’è un motivo se costano 9,90 euro. Va tutto bene, basta non fargli prendere acqua. Mai. Mi si sono liquefatte, stile sangue del santo, sul sagrato del teatro Strehler e, scalza, ho preso il tram per molte, molte fermate fino a Corso XXII Marzo e ho proseguito, scalza, fino a casa.

Il giorno dopo c’era il sole e io ho visto un ragazzo e una ragazza, scalzi, per strada, super fighi, con dei vestiti pazzeschi e in odore di modellità.

A Milano è un attimo e fai subito tendenza.

Dice che ci sono i cool hunter (nonna perdonami non rinnegherò mai le tue melanzane ripiene e le chiacchiere d’estate con la tua amica Enza con le sedie che ci portavamo da casa per metterle in strada) che, in incognito, si aggirano per la città, per rubare dettagli e particolari a noi comuni mortali.

Un dettaglio che a loro rende migliaia di euro, per me è solo il nervosismo di un mattino, una mega spilla a forma di cactus sulla maglietta solo per coprire la macchia dell’ultima ora, quella del caffè bollente buttato giù in fretta ed esploso in bocca a temperature assassine e vaporizzato per tutta la cucina e segnatamente sulla mia maglietta.

Non sono cool, sono solo sbadata e in ritardo!

Ecco, per il mercato, anche i bambini dopo la scuola.

Che bello, domani è domenica!

“Nonno, ho fatto un disegno spaziale oggi” dice il bimbetto, sputacchiando fuori, dall’enorme finestra, prima riempita dai suoi denti da latte. Quei due, quelli davanti. Come si chiamano?

Continua “ho disegnato che avevi due ruote al posto dei piedi e che io salivo sulle tue spalle e ce ne andavano a velocità super sonica a Gardaland” gli dice mentre zompetta aggrappato alla sua mano, libero dallo zainetto aggrappato, come se fosse sempre stato lì, alla spalla sinistra del nonno.

“Lo sai che domani Filippo va a Gardaland? Ci va con il padre, che non vive a casa con loro ma torna solo per fare le cose divertenti con lui. Quest’estate sono anche andati a vedere i delfini a Riccione. Devo chiedere al papà se va via da casa. Che dici, glielo chiediamo? Poi, può tornare solo per fare le cose belle. Lo sai che mi hanno detto che c’è pure un parco di Topolino, qua vicino, che non devi arrivare fino in America? Sai quale giostra voglio fare a Gardaland? Si chiama Raptor, forse non ci posso salire perché sono troppo basso ma se mi allungo per bene sui piedi magari non se accorgono e poi comunque tu avrai le ruote e saremo super veloci e non ci prenderanno mai”! Dice tutto insieme, la piccola furia, non si ferma e il nonno ha fermato se stesso e il piccolo davanti al camioncino del pane dove, anche io, sto aspettando il mio turno.

“Nonno, i tarallini, per favore. Li portiamo a Lisa e magari la febbre le passa più in fretta, che dici”? Il nonno sorride e lo accontenta e io sospetto che dietro il tenerissimo atto di altruismo si nasconda solo interesse allo stato puro.

“Mi dà metà di quella ruota di pane”? Chiedo al panettiere quando arriva il mio turno, rivolgendo le mie brame sull’unica superstite forma di pane, ancora invenduta.

“Mi spiace, signorina, ma non gliela posso dividere. La vendo intera. Però, siccome è l’ultima, le faccio un poco di sconto”. Mi risponde.

Oddio e perché mai non la può dividere? E cosa me ne faccio io di un’intera ruota di pane? Andrà buttata e se butti il cibo è peccato a Gesù.

Io voglio solo un pezzo di pane, io.

Quando, già sopraffatta dai miei velocissimi e, per fortuna, invisibili pensieri, una voce, la voce di un uomo, passa accanto al mio orecchio destro “Se vuoi lo prendi intero e poi lo dividiamo, che ne dici”?

Non so perché ma guardo, per primo, il panettiere, alla ricerca del suo consenso. Lo vedo scuotere il capo, arricciando le labbra in una smorfia di approvazione.

Quindi, come se la voce avesse lasciato delle briciole sul suo cammino, mi metto a raccoglierle, fino ad arrivare al titolare della sensata proposta.

L’uomo pragmatico che ha risolto il mio problema.

Vedo delle spalle larghe. Non poteva essere altrimenti.

Solo spalle larghe possono risolvere i nostri problemi.

“Un uomo con le spalle larghe, lo sa bene lui come si fa”, e questo era Francesco De Gregari, con il suo pezzo Spalle larghe del 1987. Dice lo speaker della trasmissione radiofonica in onda nella mia testa.

Salgo su, un pomo d’Adamo che si muove perché in quel momento “spalle larghe” sta deglutendo, ha l’acquolina in bocca per il pane caldo caldo che la nostra neonata società gli permetterà di portare a casa.

Ha la bocca che sembra il tappo di una birra, a corona, bella.

Sbarbato, come se non avesse mai avuto un filo di barba, in vita sua.

Occhi affamati e sopracciglia che si appoggiano, come se non potessero stare in nessun posto, se non in quello.

Occhi grandissimi e tondi proprio come una ruota di pane.

Ha le orecchie leggermente a sventola ma i capelli, un po’ lunghi e un po’ ricci, le coprono in parte.

“Che dici, affare fatto”? Mi porge la mano per sancire l’accordo.

“Affare fatto” e gli stringo vigorosamente la mano perché io odio chi ti dà la mano molla.

“Allora fanno tre euro e buon appetito” ci dice il fornaio che ha già rinchiuso la ruota di pane in una carta bianca e leggera e che fa un rumore bellissimo, come di bollicine che risalgono su, dall’aranciata.

“Ecco, ora non ci resta che dividerlo”, mi fa lui, “lo farei io ma ho gonfiato la ruota della bici, poco fa, e le mie mani fanno un po’ schifo”. Si mette a ridere.

“Andiamo da Luca” faccio io “facciamoci prestare un coltello da lui”.

Luca ha una trattoria sulla piazza.

Luca quando c’è un po’ di sole, ci mette il tavolo fuori, sul pezzo di marciapiede tra l’ingresso della sua trattoria e il muretto delle aiuole, e possiamo mangiare all’aperto e vedere la gente che passa.

Perché da Luca passa sempre qualcuno.

Luca è sempre incasinato ma, ogni volta, ogni sabato mattina, ripete il miracolo della moltiplicazione dei tavoli e, soprattutto, non segna le ordinazioni da nessuna parte. Le tiene tutte a mente e raramente sbaglia.

“Un minuto e sono da voi”, ci urla non appena ci vede.

Luca, quasi, non ti ascolta.

“Grazie ragazzi, grazie per la pazienza. Arrivo. Sei un grande, sei un grandissimo” dice, tutto d’un fiato, ad un altro cliente che si sta sparecchiando la tavola, da solo, e gli porge scheletri di birre e la tovaglia di carta, tutta accartocciata.

“Sedetevi qui e sono subito da voi”. Non ci dà neanche il tempo di spiegargli le nostre reali intenzioni.

Io e il mio nuovo amico ci guardiamo e ci sorridiamo.

“Va bene, neanche ci conosciamo e già andiamo a pranzo fuori” fa lui e io, in questo caso, vorrei poter attivare il super potere della battuta troppo forte ma mi limito a sorridere e a stringere forte la ruota di pane come fosse il mio scudo.

Decidiamo entrambi di accettare la decisione che Luca ha preso per noi e ci sediamo ad un tavolo, stranamente libero.

Da Luca se c’è da aspettare per mangiare, in genere, ci mettiamo sul muretto a bere qualche birra, un po’ di vino o un po’ di prosecco.

Spero che nessuno dei miei amici passi da qui oggi.

Ma, in realtà, sono già tutti schierati sul muretto, a ridere e bere.

Gli rivolgo solo un cenno con gli occhi, della serie “ora arrivo ma lasciatemi fare”.

Metto per terra i sacchetti con la spesa e subito un cane, sdraiato lì accanto, ci ficca il muso dentro. Si ritira subito, niente di suo gradimento.

Luca decide, anche, che dobbiamo brindare e mette un mezzo di bianco sul tavolo.

Forse il mio nuovo amico fa sempre così. È d’accordo con il panettiere per fare la scena del pane con una giovane fanciulla diversa ogni sabato (e io guarda caso sono una giovane fanciulla di sabato mattina al mercato dell’Isola) e poi le porta tutte da Luca, cui passa un fisso al mese per essere suo complice oppure, semplicemente, le cose stanno succedendo per caso.

Anzi stanno succedendo e basta perché io al caso non ci ho mai creduto.

“Mi sa che ci stiamo dimenticando qualcosa di fondamentale. Come ti chiami? Giusto per non essere costretto ad attirare la tua attenzione con versi strani” scherza lui.

“Mi chiamo Giulia. E tu?” Lo guardo fisso negli occhi giganti. È proprio bello.

Stai ferma pancia.

Oggi non era in programma né il pranzo fuori né l’essere affascinata da un estraneo cavaliere.

Piascere Enrico, l’altra metà del tuo pane”! E scoppia a ridere.

E nel dire “piascere”, mi rivela le sue origini meridionali. Devo scoprire da quale sud proviene.

L’altra metà del mio pane.

“Vado a lavarmi le mani così almeno possiamo risolvere la questione del pane”, che, intanto, ho messo al centro esatto della nostra tavola.

Si alza, scusandosi.

Fa appena in tempo a scomparire dietro la porta a vetri della trattoria che, subito, la mia amica Beatrice, fino a quel momento seduta con gli altri sul muretto a sbronzarsi, mezza brilla, si avvicina.

Apprezzo la sua discrezione, apprezzo il fatto che non si siano tutti lanciati, urlando, verso il nostro tavolo come, in effetti, avrebbero potuto fare.

“Quindi”? Mi dice sedendosi al posto di Enrico.

“Quindi cosa”? Le rimando la domanda.

“A pranzo fuori con un uomo e non dici niente”? Mi chiede.

“Ma ti pare che se ho qualcosa da nascondere, vengo qui in trattoria e poi è successo tutto all’improvviso, l’ha deciso Luca, noi volevamo solo dividere il nostro pane”?

“Ti sei convertita? Spezzi il pane e bevi il vino? Attenzione all’effetto Ultima cena”! Mi fa lei ridendo.

“Bea, ti giuro, ti racconto tutto ma ora, da brava, vai a sbronzarti con gli altri, è andato in bagno e penso che non ci rimarrà a lungo”.

“Dipende dall’effetto che gli hai fatto”! Mi risponde e mi stampa due baci sulle lenti degli occhiali.

Sono costretta a togliermeli per pulirli, provocando un momentaneo effetto banco di nebbia, quando risento la voce.

Evidentemente, è tornato dal bagno, si è seduto e io non mi sono accorta di nulla.

“Ma con tutto questo pane cosa ci faremo”? Mi chiede mentre versa a me e a lui un bicchiere di vino.

“Cin” gli faccio e mi sembra che questa sia la cinquantesima volta che pranzo con lui.

“Cin”, risponde massaggiandosi il lobo dell’orecchio sinistro con indice e pollice della mano.

“Un minuto e sono da voi”, urla Luca e ci sfreccia accanto, carico di piatti fino a sfidare con impertinenza la forza di gravità.

Li distribuisce, quasi, con precisione. Ne sbaglia solo un paio: consegna un roast beef al posto di una cotoletta e confonde un piatto di polpette e piselli con uno di fusilli al pesto rosso.

“Uhm, polpette… ne avrei proprio voglia”, mi sento dire ed è strano perché, per fare la figura della figa con questo sconosciuto signore, dovrei ordinare solo un piatto di insalata abbondante e scondita. Molto abbondante e molto scondita.

Enrico mi guarda e fa “hai ragione, polpette” e tira fuori dal taschino della giacca, una penna nera. Toglie il tappo e la impugna come si impugnerebbe una spada. Stende la tovaglia di carta sotto le sue mani, stirando le ondine.

E comincia a disegnare sul suo lato.

Velocemente, senza fermarsi, in pochi minuti, si materializza un piatto di polpette, con il sugo e tutto.

“Scusa se mi sono servito per primo” e sorride “ti prego di non considerarmi un maleducato. Ne prendi un piatto anche tu”? E svelto si alza dal suo posto e viene dietro di me e io, divertita, un po’ mi scosto, lasciandogli disegnare un piatto di polpette anche sul mio lato della tovaglia.

Finisce di disegnare e si tira su, rimirando da una giusta distanza il suo capolavoro.

“Perfetto”. Ritorna velocemente a sedersi e ci versa un altro bicchiere di vino.

Sarà il vino, sarà lo stomaco vuoto, sarà lui, ma io mi sento, leggermente, felice.

“Buon appetito”, mi fa.

Intanto arriva Michelino, quello strano del quartiere.

Si fa strada tra i tavoli e raggiunge il gruppetto distribuito tra il muretto e la panchina di fronte.

“Avete una sigaretta, eh? Ce l’avete una sigaretta? In cambio, vi rivelo un segreto. Lo volete sapere un segreto? Una cosa che conosco soltanto io”, dice ai ragazzi, in cerca di complicità e qualcosa da fumare.

Come sempre, il suo cappellino dei Chicago Bulls, ben calcato sulla testa, estate o inverno che sia. Dice che il cappello gli tiene ben fermi i pensieri ché altrimenti scappano. Lui ha i pensieri agitati e il cappello glieli tiene tutti fermi in testa.

Poi, accende a tutto volume il suo ipod e comincia a cantare sempre la stessa canzone “maledetta primavera, che fretta c’era, maledetta primavera”.

Non mi sento in pericolo perché oggi è autunno.

“A me da piccolo mi hanno rapito gli alieni”, dice in cambio della sigaretta.

Poi, vedo i miei amici che, ridendo complici, gli dicono qualcosa nell’orecchio, alzando per un momento la cuffia che abbraccia l’orecchio sinistro di Michelino e fanno cenno verso di noi.

Lui ride, felice di sentirsi parte del gruppo e fa di nuovo lo slalom tra i tavoli.

“Stai calmino, Michelino”, gli dice Luca “altrimenti chiamo mammina”.

“No, mammina no, è andata a prendere un tè con la Regina”. Risponde lui.

Quale testa coronata frequenti la mamma di Michelino non è dato sapere o forse è il segreto che vuole svelarci, su istigazione dei miei brillanti amici, venendo verso di noi.

“Lo volete sapere un segreto? Lo volete sapere? Se mi date una sigaretta ve lo dico”. Ci dice quasi sedendosi in braccia a Enrico.

Michelino, questa volta non aspetta risposta e subito prosegue.

“ Lei è la mia fidanzata”, fa cenno verso di me, rivolto a Enrico che si mette a ridere.

“Complimenti Michelino, la tua fidanzata è bellissima”, risponde subito Enrico.

Troppo subito, troppo in fretta.

Mi guarda e lo vedo arrossire.

Cos’è una specie di dichiarazione d’amore?

Grazie Michelino e grazie amici e grazie panettiere amico dell’amore.

Intanto, noi abbiamo già perso interesse agli occhi di Michelino che, adesso, sta giocando con il cane che, poco tempo fa, aveva ficcato il muso nel sacchetto della mia spesa.

“Se mi dai un osso ti dico un segreto” gli bisbiglia grattandogli l’orecchio.

“Volete del pane”? Ci urla Luca.

Scoppiamo a ridere insieme, portando istintivamente le mani in avanti a toccare a ruota di pane, al centro del nostro tavolo.

Le mani sono più veloci di noi, dei nostri pensieri e delle nostre intenzioni.

Decidono di sfiorarsi.

Subito ci guardiamo negli occhi e ce le riprendiamo, le facciamo tornare indietro.

E io non mi controllo più e comincio a parlare: “Con tutto questo pane possiamo mangiare un sacco di cose con un sacco di sugo, possiamo fare la festa della scarpetta, invitare tutti i nostri amici oppure possiamo fare una tonnellata di bruschette con il pomodoro oppure possiamo fare il pane bagnato con le verdure oppure possiamo scavare la scrosta e farne barchette oppure possiamo usarla come ferma porte quando sarà troppo duro e inutilizzabile oppure possiamo sfamare le paperelle ai giardini di porta Venezia o lanciare di nascosto la mollica ai fenicotteri rosa oppure possiamo farci le scarpe di pan bagnato come Pinocchio oppure possiamo usarlo come sedia quando siamo stanchi oppure possiamo fare mille panini per fare mille gite oppure la mia nonna il pane lo mangiava nel latte oppure la mia nonna il pane se lo faceva da sé oppure ci facciamo polpette oppure, con la mollica, ci possiamo fare i dadi e giocarci fino a mattina oppure possiamo usare le briciole come coriandoli”. Gli dico tutto questo e forse lo pensa anche lui.

Possiamo fare molte cose ma mi sa che questo pane non lo possiamo dividere. Non oggi. Forse domani sì. Ma non oggi.

E mentre io parlo, lui continua a disegnare qualunque cosa io dica, come se disegnasse direttamente nell’aria, come se disegnasse baloon che escono dalla mia bocca.

Luca butta sul tavolo un piatto di salame e pecorino.

Afferriamo, insieme, un pezzo di formaggio. Lui stacca un pò di pane e me lo porge. Mangio tutto insieme e così fa lui e poi ci dedichiamo al salame. Salame e formaggio lasciano una pellicola unta sulle mie dita.

Poi, Luca ci porta una caponata fresca fresca: melanzane, olive, pomodori, patate e capperi e questa volta, per una pura questione di formalità, usiamo la forchetta e non le mani e poi stacchiamo ancora pezzi di pane per raccogliere il sughetto, reso corposo dalla patata sbriciolata.

Negli intervalli, continuiamo a mangiare pezzi di pane. Solo pane.

Fino a quando, io non tiro fuori dal mio sacchetto qualche pomodoro e gli dico “si fa così” e ne sfrego uno tra le dita della mano destra come il fruttivendolo, qualche ora fa, e glielo porgo.

Pane e pomodoro.

Non c’è poesia più grande.

“Da bambino mangiavo sempre e solo pane e pomodoro, il resto non mi piaceva, una volta mi ricordo che l’ho mangiato anche a Natale, solo pane e pomodoro, a volte lo preferivo addirittura alla cioccolata” Enrico dà sapore ai miei pensieri e addenta il suo pezzo di pane condito e un filo d’olio cola sulla tovaglia di carta disegnata.

Non ci siamo accorti che è quasi sera.

Gli ambulanti del mercato intorno a noi cominciano a sbaraccare.

Luca continua a dirci “Comodi, comodi tanto sono aperto fino alle nove e mezza”.

Ma il pane è finito.

Abbiamo mangiato un’intera ruota di pane.

Non lo abbiamo diviso. Lo abbiamo mangiato tutto.

Mi guarda e mi fa: “È un piacere fare affari con te, dovremmo mettere su una società di qualche cosa”.

Qualunque cosa, penso io.

Spalle larghe mi porti a Gardaland? I panini li faccio io.

Lui sgombra velocemente il tavolo e piega la tovaglia di carta ma prima ne strappa un lembo non disegnato. L’unico angolo rimasto bianco.

Ancora per poco.

Nasconde nella tasca della giacca la tovaglia piegata e poi si butta sul pezzo di carta bianco.

Scrive e disegna come un matto. Si piega così tanto sul foglio che i capelli dritti sulla fronte ora toccano il foglio. È tutto piegato su se stesso.

Finito. Mi sorride. Mi porge il foglio mentre Luca sta cominciando a spazzare per terra. Lo prendo

E se ne va.

Lo guardo allontanarsi.

Apro il biglietto.

“Sabato prossimo polpette al sugo. Come a casa. Mi troverai al mercato alla ricerca degli ingredienti.

500 gr. di carne di manzo tritata

aglio

cipolla

prezzemolo tritato

80 gr. di parmigiano grattugiato

olio extravergine

500 gr. di polpa di pomodoro

2 uova intere

sale

pepe

Ogni singolo ingrediente è stato disegnato.

Se sabato prossimo verrete al mercato dell’Isola, ci potrete trovare con il naso all’insù a cercarci tra i vari banchetti con i sacchetti pieni di cose buone da mangiare.

Informazioni su Simona Toma

Bella di padella, paroxetina lover, ho un'opinione su tutto e, tendenzialmente, mi basto da sola. E, comunque, rimango sempre un'esilarante storia d'amore e cinema.
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4 risposte a L’amore in pochi passi. Sabato vado al mercato all’Isola. (da leggere ascoltando Nantes di Beirut)

  1. Marta ha detto:

    un sogno!

  2. kappa ha detto:

    Applausi!!!
    ah vedi che John Travolta dice che ti fa causa …

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